Il 30 novembre 2007 era una giornata invernale normale, dal sapore cupo e uggioso; per i tifosi dell’Avellino, però, quel giorno non può essere considerato uno dei tanti. Quella mattina, a Mercogliano, stava per spegnersi una stella: quella di Adriano Lombardi, la leggenda biancoverde. Sono passati 17 anni da quel maledetto giorno, ma il ricordo del Capitano – com’è giusto chiamarlo – è sempre vivo e consolidato nel cuore di tutti i tifosi. L’amore per l’uomo e per il calciatore non si è mai spento, al punto tale che oggi lo stadio porta il suo nome, con grande orgoglio di tutta la città. In occasione dell’anniversario della sua scomparsa, SportAvellino ha deciso di affidare alla penna di Fabio Roberto Tognetti – autore del libro “Il rosso di Ponsacco”* – un ritratto inedito e autentico del mito biancoverde. Il suo è un racconto romantico, profondo, sentito: il migliore omaggio che si potesse fare al Capitano.
* Fabio Roberto Tognetti è l’autore de “Il rosso di Ponsacco. La storia di Adriano Lombardi, dalla Valdera a San Siro” (2020), edito da Eclettica Edizioni. È possibile acquistare il suo libro su Amazon e sul sito della casa editrice.
Lombardi, eroe giovane e bello
di Fabio Roberto Tognetti
Quando mi è stato proposto di scrivere un articolo su Adriano Lombardi istantaneamente e in maniera pressoché automatica, come un repentino riflesso incondizionato, nella mia testa è iniziata a suonare una ballata di Francesco Guccini, un fiume di parole lungo otto minuti e diciassette secondi accompagnato da una serie di accordi di chitarra il cui andamento ritmico ricorda l’incedere costante e travolgente di una locomotiva.
La canzone – “La Locomotiva”, appunto, brano tratto dall’album “Radici”, un capolavoro datato 1972 – prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto: un pomeriggio di luglio del 1893 un anarchico bolognese, tale Pietro Rigosi, si impadronì furtivamente di un locomotore sganciato dai vagoni, conducendolo a piena velocità verso – o meglio, contro – la stazione del capoluogo emiliano. Il motivo del gesto non è mai stato acclarato, anche se
l’inclinazione politica del Rigosi fa dedurre che si trattasse di un eclatante e drammatico gesto di protesta – come peraltro immaginato nella canzone di Guccini. La storia ebbe comunque una fine tutto sommato felice: la locomotiva venne tempestivamente deviata su una linea morta dove terminò la propria corsa schiantandosi contro alcuni carri merci; Rigosi, pur ferito in maniera seria, non solo sopravvisse all’urto ma, oltretutto, non ebbe alcuna ripercussione di natura legale.
Ma cosa c’entra La Locomotiva di Guccini con Adriano Lombardi? Cosa c’entra una storia di fine Ottocento con protagonista un anarchico bolognese con quella di un calciatore toscano degli anni Settanta? Poco, pochissimo, forse niente. Tuttavia, seppur a volte faccia brutti scherzi, ogni tanto può essere interessante assecondare le deviazioni che la propria testa fa e vedere dove esse conducono. È questo l’esercizio che mi permetto di fare e di proporvi.
La frase che mi ha ispirato questo insolito accostamento è la pluri-citata “Gli eroi son tutti giovani e belli”, verso ripetuto per due volte sul finale della prima strofa della ballata e che diverrà eponimo di una pluralità multiforme di iniziative editoriali, museali e quant’altro ancora. Infatti, se penso a Adriano Lombardi la prima immagine che la mia mente processa, per così dire l’archetipo kantiano di Adriano (mi permetto di chiamarlo per nome come fosse un amico dato il tempo trascorso in sua compagnia nel corso delle lunghe nottate passate a scriverne la biografia) è quella tratta da una foto che gli è stata scattata o poco prima del calcio di inizio di una partita, o, in alternativa, durante un allenamento e dalla quale è stato preso spunto per la realizzazione del bel murales che rifulge lungo un muro perimetrale dello stadio Partenio-Lombardi.
Adriano è in piedi, con le braccia conserte, ripreso di tre quarti. L’espressione non è adombrata come quella del graffito, quanto, piuttosto, placidamente severa. Gli occhi sono socchiusi, la bocca semi-aperta in un accenno di sorriso. Si tratta di un ritratto fotografico perfetto, che dà immediatamente l’idea dell’essenza del soggetto rappresentato: fiero, sicuro di sé, carismatico. In una parola: autorevole. Un “hombre vertical” come amano dire
i sudamericani. E Adriano era soprattutto questo: un leader.
Leader nel campo da gioco, dove sapeva condurre i compagni, dettarne i tempi, gestirli nella manovra e ispirarli con i suoi colpi di classe – veri e propri guizzi di genio che abbagliavano spettatori e avversari sopra quei tremendi terreni fangosi di periferia delle serie minori, dove il suo talento per troppo tempo è andato sprecato. Guai, però, a ritenerlo un fantasista da mattonella: quando occorreva dare l’esempio, quando servivano corsa, sacrificio e sudore, le dosi elargite a beneficio della squadra erano sempre generose e abbondanti.
Leader negli spogliatoi, dove si presentava puntuale e disponibile quando serviva cavare fuori un po’ del carattere sanguigno e salace tipico di noi toscani per mettere in riga tanto un compagno svogliato quanto un presidente troppo ingombrante.
Adriano in questa foto è “giovane e bello”. In verità, giovane lo è relativamente. Il ritratto è stato scattato presumibilmente nel corso della sua prima stagione in Irpinia, quella del 1975-76 – lo desumo da una rapida e poco approfondita ricerca delle maglie indossate dai Lupi – e dunque ha intorno ai trent’anni, l’età della piena maturità calcistica (e forse qualcosina in più data l’epoca). Adriano è reduce da stagioni poco felici a Como e Perugia, dove i risultati raccolti sono stati di molto inferiori alle aspettative strombazzate dalle dirigenze a inizio campionato. Immagino, quindi, che con l’approdo in Irpinia la sua legittima ambizione di vedersi in Serie A fosse oramai ridotta agli sgoccioli di fronte alla realtà di ritrovarsi a militare per una piazza allora assai poco attraente. Bello, invece, si
può proprio dire che lo sia, con l’aspetto assai curato, la divisa perfettamente disegnata e senza un capello fuori posto, la barba che pare esser stata fatta di fresco. So quanto amasse apparire “preciso” e che la cosa venisse notata e apprezzata. Anche per questo è stato un calciatore moderno, attento all’immagine senza, tuttavia, mai scadere nel
narcisismo.
Ma eroe? Si può definire “eroe” una persona che non ha combattuto (almeno pubblicamente) battaglie sociali o politiche, che non si è immolato per una causa onorevole, che non ha salvato vite? Se per chi giudica, una partita di calcio è mero intrattenimento, se lo sport è un ambito della vita limitato al tempo libero, se correre dietro a un pallone, nuotare, tirare pugni o cavalcare una bici sono soltanto attività ludiche prive di qualunque altro valore, il termine, certo, mal si concilia ad un calciatore/sportivo. Ma se si ritiene, come il sottoscritto, che nella vita le emozioni abbiano un peso fondamentale per qualunque motivo e in qualunque contesto le si provino, se si ritiene che lo sport sia un fatto sociale al pari di ogni altra attività umana, se anche solo per un attimo uno sportivo riesce a insegnare un valore, trasmettere un messaggio positivo, regalare gioie e speranze a una platea di sostenitori, allora una vittoria, un successo, una conquista, una promozione può essere considerata davvero come “atto eroico”.
E la promozione dell’Avellino in A quel giugno di quarantadue anni fa è stato certamente un atto eroico per migliaia di tifosi irpini. Lo è stato non tanto e non solo per il successo sportivo in sé – pur importante e straordinario dato il contesto e le modalità con il quale è maturato – quanto per le ricadute che esso ha avuto per un intero territorio, perché lo ha finalmente messo sulla cartina dell’Italia, perché ha costretto i media a non ignorarlo, a puntarvi i riflettori, a parlarne e a scriverne (qualche volta, è vero, con un certo senso di sufficienza e di biasimo poco simpatici).
Un successo sportivo, poi, non cade quasi mai nel vuoto, ma si plasma in esempio per chi è alla ricerca di una ispirazione per affrontare un impegno, per superare un ostacolo, per oltrepassare una difficoltà. E credo di poter dire che questa parte di Italia allora ne avesse davvero un gran bisogno e ne avrebbe avuto ancor più nell’immediato futuro. Se poi queste considerazioni fossero soltanto un eccesso di romanticismo del sottoscritto, riuscire a regalare per almeno novanta minuti un buon motivo per evadere dai problemi quotidiani non è già di per sé abbastanza?
Adriano è stato protagonista di tutto questo, ma non solo. Se si è stati di esempio e di ispirazione per una intera carriera sportiva, difficilmente si smette di esserlo una volta appesi gli scarpini al chiodo. E così, se una disgrazia che ti è capitata tra capo e collo non rimane soltanto un elemento sopra il quale chiudersi in se stessi e disperarsi (sarebbe stato ampiamente legittimo e umano anche il contrario), e diventa una spinta, un pungolo feroce per aiutare gli altri a combattere una battaglia comune, come si può non essere definiti eroi?